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Autore Flags of our fathers-La bandiera sulla collina di cartapesta
gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
Messaggi: 15032
Da: Roma (RM)
Inviato: 10-11-2006 23:28  
Considerazioni invecchiate di cinque giorni, abbastanza disordinate.Mi soffermo sui limiti.


Un film che sin dalle battute iniziali, riaffermando che non esiste bianco e nero come colori differenti, si concentra sulla figura dell'eroe. Eroe che non sceglie di esserlo, ma che fa cose che al momento gli sembrano normali. Eroe che serve non per vincere una guerra, ma per far credere che la si possa vincere. Eroe utilizzato quel tanto che basta e poi gettato via come un fazzoletto tanto bianco e utile con il naso attappato, quanto da appallottolare e gettar via dopo un paio di soffiate.
Ma così come il film inizia, così si chiude: sempre con una voce fuori campo che riafferma come l'eroe per come lo dovremmo conoscere noi, in realtà non esista.Stavolta però ad accompagnre le parole ci sono quellle immagini di un bagno come tanti, fatto però quando deu ragazzi non sapevano che sarebbero diventati simboli.le cose le avevano fatte perchè c'erano da fare, nulla più.
E' questo a mio avviso il principale limite del film di Eastwood. Un'estrema circolarità nella narrazione, un eccesso di reiterazione degli argomenti che spesso fanno delle immagini una mera appendice. Non si tratta di un brutto film, ma mi pare che si guardi troppo l'ombellico. Adagiato sulla forte considerazione iniziale, una "lettera d'intenti" sulla necesssità di smitizzare quell'eore intenso nell'accezione più "americana" del termine, il film non decolla mai. I continui flashback invece che offrire parallelismi tra il ciò che si faceva credere ed il ciò che era in realtà, diventa ben presto prevedibile non solo nella forma, ma anche nei contenuti. Ha una valenza da un punto di vista concettuale, ma a livello empatico il risultato non è il massimo.
Forse per certi versi è vero quanto scritto su Sentieri selvaggi che questo film rappresenta per il cinema di guerra ciò che Gli spietati ha rappresentato per il western, ovvero quasi la morte del genere almeno dal punto di vista classico.
Però qui troppo utilizzata è la parola. La spettacolarizzazione dello sbarco ha sì l'intenzione di farci capire come ci si trovasse di fronte a ragazzi normali, obbligati nelle loro scelte sia in guerra che poi nel raccattare denaro, ma c'è una tale sovrapposizione di mezzi utilizzati che invece di esser marcato sempre più l'argomento, questo per certi versi viene neutralizzato. La secchezza narrativa di Eastwood viene purtroppo dilapidata da una sceneggiatura che sembra voglia fare un film a tesi.
Sarà che noi europei questo "fenomeno" del simbolo e dell'eroe lo avvertiamo meno rispetto agli americani (da questo punto di vista abbiamo un'altra cultura), però il film soffre anhce a livello empatico: non ci si riesce a commuovere davanti a questa storia che in tal senso sarebbe stata resa meglio da quello Spielberg che qui è produttore e di cui mi pare citato l'inizio di Salvate il soldato Ryan.
Non so quanto possa reggere per un giudizio vero su questo film il fatto che Eastwodd stia realizzando sullo stesso evento, il punto di vista giapponese. Non credo molto: questo film, come già detto, lo ritengo molto americano, un atto unico e unilaterale che non può avere corrispettivi. La politica che usa l'eore e poi lo butta via, così come chiunque altro, pure il barista che "sì, è un eroe. però nel bar non lo vogliamo".Non è su Iwojima, ma su ciò che ha rappresentato e su come questa stpria sia l'emblema di mille altre. Penso che sui giapponesi sarà un'altra la prospettiva adottata. Rimane un film sicuramente valido, coerente e ben girato, ma meno maestoso e per certi versi sincero di quelle che forse erano le intenzioni o forse le mie aspettative.


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E la nuvola chiese alla pioggerellina: "E tu, cosa farai da grandine?".

Il "peggior" blog di cinema: Ammazza la vecchia!!!

[ Questo messaggio è stato modificato da: gatsby il 10-11-2006 alle 23:41 ]

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gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
Messaggi: 15032
Da: Roma (RM)
Inviato: 10-11-2006 23:44  
ho lasciato parecchie tematiche in sospeso, sia da un punto di vista storico che proprio di linguaggio. E' un film che non ho ancora metabolizzato per bene, mi farà piacere leggervi e ragionarci assieme.
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Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento : quello in cui l'uomo sa per sempre chi è

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Ahsaas

Reg.: 18 Apr 2006
Messaggi: 779
Da: Parma - India (es)
Inviato: 11-11-2006 01:21  
torno ora dalla sua visione. Lo ritengo senz'altro (e a priori) il Miglior Film dell'anno, tra i migliori di sempre, nonchè la miglior pellicola bellica. Un punto d'arrivo (ulteriore) per un Autore come Eastwood, sempre più consapevole e lucido. Passerò la notte a meditarci sopra e a scriverci, quindi tornerò...
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"E' FINITA" SI DICE ALLA FINE

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gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
Messaggi: 15032
Da: Roma (RM)
Inviato: 11-11-2006 08:02  
mi farà piacere leggerti, visto che mentre è salvo il fatto hce da un punto di vista emozionale non sia stato quasi per nulla colpito da questa storia, sul valore della stessa sotto altri punti di vista sono pronto a ricredermi.
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Ayrtonit
ex "ayrtonit"

Reg.: 06 Giu 2004
Messaggi: 12883
Da: treviglio (BG)
Inviato: 11-11-2006 09:53  
andra ma per inizio del film preso da spielberg intendi lo sbarco in normandia di salvate il soldato ryan? perchè quelle scene per me sono fra le migliori che abbia mai visto, dubito che eastwood abbia tanto virtuosismo tecnico.

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"In effetti la degenerazione non è mai divertente, bisogna saperla mantenere su livelli tollerabili.
Non è tanto una questione di civiltà, ma di intelligenza."
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gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
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Da: Roma (RM)
Inviato: 11-11-2006 10:00  
beh, questa è per certi versi più avvolgente, però per intenistà quella di Spielberg è maestosa
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Ahsaas

Reg.: 18 Apr 2006
Messaggi: 779
Da: Parma - India (es)
Inviato: 11-11-2006 23:19  
ecco le mie considerazioni, sicuramente di parte, forse troppo (ma anche no), essendo Eastwood probabilmente il mio regista preferito in assoluto.
Già pubblicato da PositifCinema QUI

INTRO: ESSERE O NON ESSERE
All’uscita dalla visione di Flags of our fathers, un mio amico, fanatico Eastwoodiano anch’esso, mi fece questa strana e anomala osservazione: “Insomma, questo è un film poco Eastwoodiano”. Non so da che pulpito di flash gli sia saltata in mente come affermazione, in quanto Flags of our fathers è puro e autentico Eastwood in ogni sua singola inquadratura. C’è da dire però, che è quantomeno capibile tale fuori-uscita, in quanto quest’opera è altamente sfuggente, al contrario di film precedenti del Clint come Million Dollar Baby o Gli Spietati (tanto per citare i più famosi), non solo perché densamente ricca di suggestioni, personaggi, Storia, storie, storie nelle storie, ma anche e soprattutto per il molteplice scavo temporale e diegetico, fatto di sintagmi che si sovrappongo, flashback, flashback nel flashback (uso più unico che raro nella filmografia di Eastwood, e questo è vero). Ma ancora una volta, per capire, apprezzare, amare appieno quest’opera, è necessario partire da lontano per ricongiungersi con l’Autore e il percorso che ha fatto e sta continuando a fare, in un’analisi filmografica dell’Eastwood regista (e non solo), che in questa pellicola mette tutto ciò che lui è stato, ma rileggendosi con ciò che è oggi e quello che sarà nel prossimo futuro, come una sorta di opera(zione) testamento: Flags of our fathers sta alla filmografia di Clint Eastwood così come Lady in the water e The Departed stanno a quelli di M. Night Shyamalan e Martin Scorsese.
Un autore così grande, così vasto, così lucido, da potersi permettere ancora una volta di de-costruire e ri-costruire il proprio Cinema, la propria maschera autoriale, non solo tematicamente (come già fece con Gli Spietati), ma anche formalmente: certo, è ancora grande classicità quella di Flags of our fathers, ma una classicità infarcita di consapevolezza post-modernistica, in particolare tutte le scene di combattimento, molto più vicine al caos immaginifico di Salvate il soldato Ryan che ai classici film di guerra americani di una volta: mai in Eastwood abbiamo visto così tanto virtuosismo tecnico, di macchine da prese annegate nell’acqua insieme ai (piedi dei) suoi soldati, di pioggie nere e grigie che cadono direttamente sull’occhio cinematografico in maniera aggressiva, violenta, di teste/braccia/gambe che volano, di soggettive aeree a richiamare il cine-dinamismo quasi stile video-game. E’ un arricchimento del proprio modus operandi con nuove espedienti, tirando le corde di un lungo percorso autoriale che si aggiorna manifestandosi sotto nuove sembianze, pur mantenendo la propria distinzione, la propria personalità.
Non è proprio tutto ciò che chiediamo di un Autore che amiamo? Spingere ogni volta la proprie barriere verso nuove sfide artistiche, attraversare strade che non si sono mai battute prima, ma senza perdere quel tocco e quella poetica che rende un autore unicamente sé stesso, quell’estetica e livello di significazioni che rende Clint Eastwood unicamente Clint Eastwood?
E lui, anche stavolta, ha superato sé stesso.

L’(ANTI)EROE EASTWOODIANO
In fondo basterebbe il fulcro tematico principale di Flag of our fathers per capire di trovarci perfettamente in sentieri (selvaggi) Eastwoodiani: L’eroismo. Questa figura sempre deformata, estremizzata, ruotata dall’autore fin dai tempi in cui interpretava i Senza-nome degli Spaghetti Western di Sergio Leone. Già allora si formava nel (non ancora) regista quella voglia di esporre ed esplorare un eroismo controcorrente, appunto dell’anti-eroismo, lo stesso che ritroveremo nell’Ispettore Callaghan, vera icona di intere generazioni, politicamente scorretto, cinico, cattivo. Poi, la morte (e resurrezione) dell’anti-eroe (quindi di sé stessi) ne Gli Spietati, dove Eastwood ci espone chiaro e tondo la più sviluppata delle sue tematiche prevalse degl’ultimi lavori: l’impossibilità di poter cambiare sé stessi e la propria coscienza. Spazzatura siamo nati e spazzatura moriremo. Una valenza che ritroviamo nuovamente in Flags of our fathers, soprattutto col personaggio dell’Indiano, mai eroe nel proprio cuore e nella propria auto-analisi, né prima né dopo la guerra, sfottuto come sempre, ripudiato da un’America (ancora) razzista (ciò basterebbe a fare di questa pellicola un film non politically correct, come hanno invece affermato alcuni).
E lo dice perfettamente la voice off finale: “Forse non ci sono veri eroi”. Ci sono solo persone come loro, andate in guerra non tanto per morire per una nazione, per la patria, ma per i propri compagni, i valori e i forti legami che si sono formati. Non sono “eroi” loro così come non lo era Il Monco o Callaghan. Sono semplici persone che si sono sporcate le mani col sangue, e che magari un giorno moriranno con in bocca il nome del proprio passato impossibile da cancellare. Un passato gonfiato dalle menzogne, iper-considerazione per qualcosa che non si sentivano affatto di meritare (ricordiamo lo stesso Ispettore Callaghan tartassato dai paparazzi e da gente che gli chiedeva l’autografo, che liquidava con un semplice “Faccio solo il mio dovere”).
Non eroi dunque, ma semplici uomini, che Eastwood, finalmente, nel suo Cinema, trova modo di redimere dal loro abito, in quella meravigliosa ed enfatizzata scena finale dove queste persone si denudano momentaneamente della loro uniforme (simbolo dell’eroismo pronunciato dai media, tantochè uno dei soldati dice di essersi arruolato solo per potersi mettere quell’abito) per purificarsi, immergersi fra le acque, ribattezzarsi e rinascere, riconquistare la propria umanità.
Ancora una volta, è quel Mystic River che ritorna. Quella sorgente in cui lavare via le proprie colpe. Con la differenza che in Flags, anche se per poco, quel gettarsi fra le acque diventa l’atto più forte di serenità e gioia ritrovata.

TRA PASSATO, PRESENTE, E FUTURO
Accennavamo prima di un uso insolito del flash back, mai così denso e quasi ossessivo in Eastwood prima d’ora, così come l’uso della voice off a narrare, a sovrapporre le narrazioni alle sub-narrazioni. Eppure diventa una scelta consapevole, non solo perché il flash back e la voice off sono i tipici espedienti del Cinema Classico per ritornare e focalizzare sul passato (che sappiamo bene, in Eastwood è un passato che finisce sempre per ritornare a galla), ma anche perché l’autore intende porre proprio un distacco netto fra il suo sguardo di ieri e quello odierno.
Non è infatti la prima volta che vediamo Eastwood affrontare un’opera Bellica, in quanto già nel 86’ girò Gunny, un film che diventa fondamentale per capire meglio diverse scelte formali di Flags.
Le prime scene dei soldati protagonisti, per esempio, ci appaiono immediatamente sotto quella luce d’immaturità esaltata identica a Gunny: soldati che ancora non si rendono conto di ciò che stanno per affrontare, e che quindi si gasano scherzando, esaltandosi, quasi come dei bambini prima di andare al Luna Park. Eastwood, in ciò, ritrova proprio sé stesso e i suoi errori commessi in gioventù, questo propagandare per le armi, per la virilità maschile, conservatore, prontamente decostruito in Flags nel momento in cui esplodono le prime bombe. Eastwood finalmente lo ammette: Gunny aveva torto. Lui, come filmaker, aveva torto. Uccidere delle persone non rende un uomo più virile, e non c’è festeggiamento ed esaltazione che possa reggere il confronto con l’orrore.
I soldati di Gunny sono tornati a casa festeggiando a suon di trombe e bandiere americane sventolate. La medesima accoglienza ai soldati di Flags, con la differenza che qui assumono quella indagine critica verso la violenza: finalmente piangono, si ubriacano per esorcizzare i propri fantasmi. Una maturazione finalmente consapevole in Eastwood anche nel territorio bellico (dopo quello western ne Gli Spietati, perché si, come già affermato da Enrico Magrelli: Flags of our fathers è per il Cinema bellico ciò che Gli Spietati è stato per il Cinema Western), una liberazione dell’uomo, come se tramite Flags, proprio lui, Clint Eastwood, sia stato il primo a (ri)trovare una redenzione di esorcismo verso il proprio passato.
Per questo bisogna scavare indietro, oltre la diegesi, il flashback. Per questo bisogna raccontare i fatti in prima persona con la voice off, è necessario ricordarsi, rimodellarsi, interrogarsi nel caos delle memorie sovrapposte, perché è l’unica via per ritrovarsi nel presente, e di conseguenza nel futuro.
Ennesima lezione del Dio Eastwood. Sia nel Cinema, che nella vita.

DECENTRAMENTO FOCALIZZANTE
Anche questo, cosa assai rara in Eastwood. Il Decentramento dei suoi personaggi, che alcuni potrebbero vedere sbagliatamente come una “negativa mancanza di caratterizzazione dei protagonisti”. Infatti, anche quando il filmaker si è trovato a dirigere più personalità insieme per un film corale (si pensi a Mystic River per esempio), la sua mano ha sempre avuto una cura particolare, densissima, quasi alla shakespeare, psicologica ed estetica, per ogni singolo di loro. Diventa dunque interessante interrogarsi su questo decentramento, su questa apparente debolezza di delineamento totalizzante dei soldati.
Eppure è presto detto: questa strada non può che apparirci, ancora una volta, una scelta volutamente stilistica e adeguata alla narrazione, data dalla maturità dell’Eastwood autore. Egli infatti, non vuole parlare di 1, 2, 3 soldati, di quelli che hanno prettamente alzato la bandiera, ma vuole parlare di un mood comune/comunitario, di un’insieme, un sentire comune. Perché proprio come dicevamo prima, questi soldati non morivano tanto per una patria, ma per i loro compagni. E’ la forza dell’unione, del gruppo, dell’essere uniti che ancora una volta Eastwood vuole esporre: non può e non deve permettersi di focalizzare solo su alcuni soldati, perché ciò svalorizzerebbe indirettamente gli altri della compagnia, quindi egli ne parla nella loro totalità, nel loro essere gruppo, prima ancora come singoli. Perché nella Guerra non c’è “il singolo”, ci sono le masse, l’unione o la disunione di un plotone di combattimento, ed Eastwood ne è perfettamente consapevole. E’ come se non solo 6, ma tutti quei soldati (presentatoci in un piano-sequenza classicissimo all’inizio) avessero alzato quella bandiera, certo, della nazione, ma anche e soprattutto dell’unione, del portare a termine qualcosa tutti insieme, della solidarietà, valore per cui vale la pena morire e sacrificarsi. Da qui anche la scelta, giustissima, di non prendere visi celebri di Hollywood nel cast (come già Spielberg in Munich, in fondo): non abbiamo il soldato Tom Hanks o il soldato George Clooney, bensì semplici ragazzi che il più delle volte, vediamo per la prima volta sui grandi schermi. E in ciò Eastwood mostra nuovamente anche la sua maestria nella direzione degl’attori, perché se forse era fin troppo facile tirare fuori da un Tim Robbins una recitazione che delineasse l’uomo debole e avvolto dalla fragilità del suo passato in Mystic River, non lo è altrettanto per un Adam Beach sconosciuto.
Ma anche qui, Eastwood ha estremamente vinto.

OUTRO: LA RIUSCITA DI UN CAPOLAVORO
Magnifico, imprendibile Clint Eastwood. Un ringraziamento, ancora una volta, che a malapena riusciamo a pronunciare per questo meraviglioso dono che ci è concesso.
Per una consapevolezza della propria strada e della propria illimitatezza. Per aver trasformato ancora una volta le luci di Tom Stern in quel quel cielo così oscuro, così avvolgente verso il nero a cui sempre ci ha risucchiati, stavolta però, dandoci quella spirale di redenzione e di salvezza, di possibilità a ritornare indietro per riguardarci e correggerci, seppur macchiati di grigio. Per quegl’orrori che sa mostrare (la caverna, con il gore splatter così incisivo ormai frame delle nostre memorie più brute), ma anche nascondere e celare, usare il fuori-campo, perché il vero dramma della guerra non può nemmeno essere resa visiva ma solo metabolizzata, percepita, inghiottita, in quella meravigliosa e immensa scena di Ryan Philippe in primissimo piano ed illuminato dalla torcia elettrica, che dopo aver osservato l’orrore in silenzio (accompagnato solamente dalle note musicali composte da Eastwood stesso, come sempre soave, melodicamente avvolto dalla malinconia, essenziale), si spegne nell’ombra, la stessa ombra che da sempre si cala sui personaggi Eastwoodiani, da Mo Cuishle a William Munny. Per questa cura estremamente poetica di ogni singola scena, carica di significati epidermici (girare ogni piccolo sintagma come fosse il più importante dell’intero film è la regola vincitrice del Clint), riuscendo a darci qualcosa di completamente nuovo per un genere ormai dato per racchiuso nei suoi cliché. Quindi rivoluzionando nuovamente il Cinema, portandolo fuori dalle solite barriere per inserirlo in un contesto nuovamente concepito, come se Flags of our fathers sia proprio il fiocco ideale che unisce due visioni apparentemente opposte: il trip tecnico/tecnologico del Salvate il soldato Ryan di Spielberg con la poetica ultra-terrena de La sottile linea rossa di Malick.
Il nero che ogni tanto, si tinge finalmente di azzurro. E di meraviglia. Grazie Clint Eastwood!


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Non conducevano da nessuna parte, quei corridoi, ma
Bastava osservarli, dal basso in
Alto, per capire di essere
Dentro un mondo a misura di noi due


[ Questo messaggio è stato modificato da: Ahsaas il 12-11-2006 alle 01:04 ]

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Davil89

Reg.: 29 Dic 2003
Messaggi: 6581
Da: Soliera (MO)
Inviato: 11-11-2006 23:36  
quote:
In data 2006-11-11 09:53, Ayrtonit scrive:
andra ma per inizio del film preso da spielberg intendi lo sbarco in normandia di salvate il soldato ryan? perchè quelle scene per me sono fra le migliori che abbia mai visto, dubito che eastwood abbia tanto virtuosismo tecnico.




e ti dovrai ricredere, ne ha in abbondanza di virtuosismo tecnico Eastwood, vedere per credere


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"Non smettere mai di sorridere, nemmeno quando sei triste, perché non sai chi potrebbe innamorarsi del tuo sorriso"

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kagemusha

Reg.: 17 Nov 2005
Messaggi: 1135
Da: roma (RM)
Inviato: 12-11-2006 09:30  
quote:
In data 2006-11-11 10:00, gatsby scrive:
beh, questa è per certi versi più avvolgente, però per intenistà quella di Spielberg è maestosa



per me non c'è paragone possibile

quella di spilberg è infinitamente superiore sia dal punto di vista della perizia tecnica sia dell'impatto emozionale sia per come è immaginata alla base
persino il sonoro era molto meglio
ma a parte ciò una è l'originale e l'altra è la copia e tanto basta

non nascondo che il film di E. è stato una mezza delusione per me
la storia è interessante, significativa, importante
spunti interessanti ci sono, uno fra tutti la questione degli indiani d'America raccontata senza risvolti consolatori.
ma in generale su tutto aleggia fastidiosamente una sensazione di già visto, di seconda mano. A partire dall'uso della voce off e dall'espediente di raccontare la storia tramite il figlio di uno dei veterani
le scene di guerra anche se belle non presentano nulla che non sia stato già fatto prima, e mancano inspiegabilmente di impatto emotivo
i personaggi anche hanno tutti qualcosa di risaputo e gli attori (indiano a parte) sono deludenti
infine il finale varca la soglia che divide il sentimento dalla retorica

questa volta lo stile classico e solenne di Eastwood è irritante invece di essere commovente
film discreto e niente di più

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gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
Messaggi: 15032
Da: Roma (RM)
Inviato: 12-11-2006 12:25  
ah llora non sono l'ultimo. Alla proiezione stampa tutti quelli che ho avuto modo di incontrare hanno trovato il film di Eastwood grandioso, giusto io ho manifestato qualche perplessità...
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Petrus

Reg.: 17 Nov 2003
Messaggi: 11216
Da: roma (RM)
Inviato: 12-11-2006 16:48  
Frequente è l’accostamento che si azzarda tra il “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg e “Flags of our fathers” di Eastwood. Accostamento che si può tranquillamente lasciare agli appassionati del dibattito tecnico/estetico sul testo cinematografico (tra i quali pure noi ci inseriamo di frequente e volentieri), perché si arena alla superflua querelle su quale sia la miglior scena di sbarco militare, quale più appassionante, quale più avvolgente.
Bisogna anzitutto far notare che tra gli emozionali (Spielberg) e i puristi (Eastwood) si inserisce, pietra miliare del genere, “Il giorno più lungo”, datato 1962. Non c’è nessuno che abbia inventato nulla, non esiste sostanzialmente nessuna innovazione nel cinema di guerra moderno rispetto a quel che è già stato codificato dalle pellicole maccartiste degli anni ’60.
I punti in comune, dunque, si arenano su una duplice rappresentazione di uno dei momenti più incerti e spettacolari dell’azione bellica durante il secondo conflitto mondiale, quello dello sbarco: Omaha beach da un lato, il sasso fortificato di Iwo Jima dall’altro.
La prospettiva, l’interesse dei due film, navigando nello stesso mare della guerra, diverge radicalmente.
Spielberg è interessato alla guerra, al substrato del fango, dei tascapane, degli elmetti e delle gallette di cui la guerra è composta. Scava, indaga i suoi personaggi, ma sempre rivolto verso la deadline del fronte, del confronto armato. Arretra al massimo fin nelle retrovie, si riposa un attimo infagottato contro un muro, ma la sua mente è rivolta in avanti, nel cuore del territorio nemico. Vuole, a tutti i costi, trovare Rayan, che sta laggiù, in una striscia lontana di terreno riempito da divise di un altro colore.
Opposto è l’orizzonte di Eastwood.
Il suo flettere e riflettere sul momento bellico in sé, non è altro che un rafforzare la sua indagine sul cosiddetto fronte interno, vale a dire su tutta la macchina-paese che sta dietro ad uno sforzo militare, che sostiene, non importa se spinta da responsabilità, calcoli o semplice patriottismo, il fronte in quanto tale. Operazione che si muove a partire, ovviamente, da alcuni singoli, punto di vista necessario per cogliere in profondità tutti gli aspetti “umani” che collegano e muovono le retrovie rispetto al fonte vero e proprio.
Vengono così scelti quegli uomini che, piantando la seconda bandiera sul monte Suribachi, entrarono nella storia per una fotografia che li rese icone immortali di un paese che stava vincendo la strenua battaglia contro il nemico.
Il valore del simbolo come veicolo e catalizzatore di qualunque sforzo umano è tema centrale della pellicola. E orrendamente simbolica diventa l’azione di guerra nella pellicola. Non si fa minimamente riferimento all’unicità delle piste aeree in tutto lo scacchiere strategico del fronte Pacifico, che hanno reso la conquista proprio di quello scoglio di fondamentale importanza per il corso della guerra. L’unico avvenimento percettibilmente rilevante è l’aver piantato quella bandiera, l’aver immortalato un momento che, da sostanzialmente inutile qual è stato storicamente, si imprime nella pellicola fotografica come evento capace di decisività nel grande quadro della guerra.
Da questo momento la lotta con le armi si fa flashback, retroterra denso e crudo di un sistema paese, come quello americano, che più di altri sottolinea l’importanza di un fronte interno, essendo lontanissimo dal fronte e scevro di barbarie e distruzioni subite sul proprio suolo.
Emergono così quegli aspetti che molti hanno segnalato come qualcosa di negativo, quegli inevitabili incastri con la politica e le logiche di reperimento di danaro che muovono e sostengono ogni conflitto.
Non ci troviamo dunque di fronte, come si è sostenuto, a una banale accusa al potere di controllo della politica sulle vite dei singoli. Siamo in presenza di un’attenta analisi dell’iconografia, della sfera della percezione imperfetta e sublimata come motore ultimo del sostegno alla politica e, dunque, alla guerra. Quel che potrebbe apparire grottesco (pensiamo alla scena della bandiera piantata su un podio in mezzo ad uno stadio, tra sventolii di bandierine e majorettes) è duro, cinico, ma necessario.
La riflessione di Eastwood si rivolge a quel che sta dietro la pallottola, il fucile, le mostrine, dando vita ad un film classico, dal respiro ampio, che rimane tuttavia interlocutorio: che il classicismo della forma si unisca alla tematica con mera funzione didascalica?
Noi crediamo di no, anche se il rischio rimane.
Solamente Iwo Jima, che dà vita insieme a Flags ad un corpo unico di narrazione cinematografica, potrà sciogliere appieno il dubbio.

pubblicato già qui
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"Verrà un giorno in cui spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate"

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gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
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Da: Roma (RM)
Inviato: 12-11-2006 17:03  
quote:
In data 2006-11-11 23:19, Ahsaas scrive:
...




Ti ho leto con l'idea di apprendere qualcosa, ma a parte tutti i riferimenti e analogie con gli altri film di Eastwood, non c'è una sola spiegazione che tu esponi per cui questo film possa essere definito, ocme fai alla fine, un capolavoro.
A parte che la sceneggiatura è di Haggis, e così' si spiega il ricorso, a mio avviso spesso non proprio funzionale, dei flashback e dei più piani temporali, ma tutti i riferimenti che fai non sono (tranne in un caso, quello del "piano sequenza") mai riferiti alla regia.
Inoltre non tratti affatto del contenuto del film, che è il nocciolo da cui partono alcune scelte(tranne appunto il caso del piano sequenza che hai citato) di cui non parli. Bah, ti voglio bene Pierre, e aver letto tuttoquesto popò di roba lo dimostra, ma davvero mi sà che il troppo amore di Easwood ti abbia impedito di esser chiaro nella tua esposizione.
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gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
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Da: Roma (RM)
Inviato: 12-11-2006 17:06  
anche quello di Pietro, ma credo sia voluto, non è un pezzo sul film in senso stretto. Mi pare che qui ci si giri attorno per paura di entrare davvero nel merito, e magari scoprire di esser rimasti delusi.
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Petrus

Reg.: 17 Nov 2003
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Da: roma (RM)
Inviato: 12-11-2006 17:25  
no, il mio è volutamente, per ragioni editoriali, l'analisi di un solo aspetto della pellicola, non un pezzo a tutto tondo
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"Verrà un giorno in cui spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate"

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Petrus

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Da: roma (RM)
Inviato: 12-11-2006 17:29  
tra l'altro io, dopo la proiezione stampa, non ho affatto detto di aver trovato indubitabilmente il film "grandioso" o non avrei scritto nell'agenda:

quote:
In data 2006-11-07 21:44, Petrus scrive:

esteticamente non è fenomenale, narrativamente sfiora il didascalico, visivamente presenta momenti altissimi come fasi di stanca. Contenutisticamente affronta temi molto complessi e articolati, e presenta una stratificazione notevolissima nella costruzione del linguaggio filmico.
D'altra parte potrebbe essere riduttivo giudicarlo tout court senza aver ancora visto Iwo Jima



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